Festa dell'Unità nazionale e delle Forze Armate: il discorso pronunciato dalla Sindaca Pavanello

Notizia del 17.11.2015

Si dà pubblicazione del discorso pronunciato dalla Sindaca Maria Rosa Pavanello in occasione della Festa dell'Unità nazionale e delle Forze Armate, celebrata nel capoluogo domenica 8 novembre e nelle frazioni domenica 15 novembre 2015.

«Questa Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate è in stretta continuità con le celebrazioni dello scorso anno. Il 2014 ha segnato i cento anni dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, il 2015 è centenario dell’ingresso nel conflitto da parte dell’Italia. Un anno, l’ultimo, che abbiamo vissuto tra ottime iniziative di carattere storico, qui come in tutta Italia, attraverso le quali abbiamo potuto approfondire – e possiamo continuare ad approfondire nei mesi a venire – il fenomeno della Grande Guerra. Un anno, invece, quello tra 1914 e 1915, che passò tumultuoso, tra spinte interventiste e neutraliste, strategia attendista e slancio irredentista; un anno che portò con sé i primi segni dell’epocale cambiamento che di lì a poco avrebbe squassato e cambiato per sempre l’Italia, l’Europa, il mondo intero. Per esempio, l’intenso dibattito cui diedero vita le forze politiche e intellettuali (Croce, Salvemini, Mussolini, D’Annunzio, Battisti, per fare alcuni nomi) iniziò a mutare le forme della politica. In quei mesi – ricordano gli storici Isnenghi e Rochat nel loro La Grande Guerra – la politica va in scena, si teatralizza, si sottrae o, almeno, finge di sottrarsi ai segreti del potere, nomina e chiama in causa di continuo il popolo e l’Italia. Fa insomma le prove per ciò che sarà nel ventesimo secolo, nel bene come nel male più assoluto.

Ma era ancora presto. Il popolo veniva invocato, ma non aveva ancora la forza né i mezzi per poter esprimersi appieno. Era ancora, per la maggior parte, numero indistinto. Un’anticipazione di come, purtroppo, fu calcolato negli anni di conflitto, nell’odiosa e sprezzante visione della guerra di Cadorna: numero, corpi, da sacrificare per un obiettivo militare, spesso tragicamente futile ed effimero. Si dice comunemente che la Grande Guerra unì, fece gli italiani, arrivando dove non giunse il Risorgimento, che fece “solo” l’Italia. Milioni di uomini di ogni parte d’Italia, che spesso mai si erano spostati dal loro luogo natio, riuniti nell’esercito, chiamati a soffrire, combattere, morire assieme. 
 
La Grande Guerra come genesi dell’anima nazionale è certo una visione retorica, “crudelmente mitica”: è chiaro che ci sarebbero potuti essere (come ci sono stati) centinaia di altri avvenimenti, cause e processi che avrebbero potuto generare il sentimento italiano, l’unione dei cittadini, la nostra idea di patria, senza bisogno di centinaia di migliaia di morti. È con la pace, non dimentichiamolo mai, che si costruisce in maniera duratura. Ma, ecco, tale visione è utile da ricordare qui, in quest’occasione, perché essa, evocando immagini di enormi masse e del loro sacrificio, dà certamente una delle idee più precise e fedeli di cosa sia stato il primo conflitto mondiale: un lungo e articolato massacro di uomini. Morte, ma prima, durante e dopo di essa, anche vita quotidiana, in trincea, sulle tradotte, nelle retrovie. Questo è l’aspetto più significativo per capire cosa sia accaduto. Questo è l’aspetto che nel centenario della Grande Guerra abbiamo maggiormente il compito di ricordare e insegnare ai giovani. Uomini comuni contro uomini comuni, costretti a massacrarsi. E a vivere in condizioni estreme, dolorose, indicibili, nel fango o sotto la neve, tra fame, ferite, malattie. Che colpivano indistintamente tutti, italiani, austriaci, tedeschi, francesi che fossero.
 

E si ammazza così, a freddo, perché tutto
ciò che non giunge nella sfera della nostra
vita pare che non esista [...]. Se io
sapessi qualcosa di quel poveraccio, se lo
sentissi parlare una volta, se gli leggessi le
lettere che tiene accartocciate sul cuore,
solo allora mi parrebbe di compiere un
delitto uccidendolo così.


In queste parole di Carlo Salsa, e nelle seguenti, è resa bene la situazione dei soldati: «cecchinare così a freddo», «cacciare l’uomo», colpire «un povero Cristo come noi, […] per infilzarlo come una farfalla contro la scarpata», questo accadeva. Questo era ciò a cui erano costretti i soldati, che si rendevano conto dell’assurdità della situazione, del fatto di combattere con persone in tutto e per tutto simili a loro (molto più simili di quanto non fossero e si sentissero molti alti ufficiali). A riprova di ciò c’erano frequenti episodi di fraternizzazione fra truppe nemiche, di umana e fisiologica interruzione di atrocità bestiali: come ricorda Thompson ne La guerra bianca, sono documentati vari «episodi di collusione che rendevano la vita più sopportabile tra una battaglia e l’altra (sparare alto, inscenare finte scorrerie, rispettare tacite tregue per il recupero dei feriti e la sepoltura dei morti, perfino scambiarsi visite e doni)». Momenti in cui il soldato non era numero, ma tornava con forza ad essere persona.
 
Penso, dunque, che il modo migliore per celebrare i cent’anni della Grande Guerra sia celebrare la vita di quei soldati, ciò che fecero e sopportarono, ma anche ciò che pensarono, scrissero, ci tramandarono. È significativa la storia militare e politica, ma lo è altrettanto, e forse più, quella, anche intima, dei protagonisti, di chi quella storia la fece e, allo stesso tempo, la subì. E per la maggior parte, a milioni, furono persone comuni. Fortunatamente il filone della storiografia che si occupa di studiare i documenti prodotti da questi soldati è particolarmente sviluppato. Oggi possiamo “leggere” direttamente la loro voce, il loro pensiero nelle migliaia e migliaia di lettere che partirono dal fronte (come quelle di cui parla Salsa). Nonché delle donne che rispondevano da casa, che lavoravano, mandavano avanti la famiglia e la casa, la vita insomma. Leggere questi testi (o i molti romanzi sulla Guerra) restituisce nel modo più vivido possibile la realtà di quegli anni. Allo stesso livello c’è solo il recarsi nei luoghi delle battaglie, sulle Dolomiti, sul Carso, sull’Altopiano di Asiago. Vedere le trincee, le fortificazioni, comprendendo cosa fosse la vita a tremila metri, d’inverno, rendendosi conto delle distanze minime tra postazioni nemiche, capendo che incredibili sforzi fecero quegli uomini (assalti disperati, scavo di gallerie, bombardamenti). Un’attività che in quest’anno di celebrazioni è stata giustamente incoraggiata in modo particolare con visite guidate, restauro dei luoghi, studi. 
 
Ecco, credo che la visita dei luoghi e la lettura della voce diretta dei protagonisti sia anche l’attività migliore a cui possiamo indirizzare i nostri giovani, per educarli all’importanza della pace, a un’Italia che, come sancito dalla Costituzione, crede nella pace. Ed anche un’attività a cui possiamo indirizzarci tutti noi, oggi, per meglio porci nei confronti degli accadimenti attuali del nostro mondo, che continua ad essere segnato dalla guerra. Guerra, che, come sempre si abbatte sulla gente comune. Guerra che ci lambisce da vicino, che coinvolge e rischia ulteriormente di coinvolgere le nostre Forze Armate, generose nel rispondere quando sono chiamate in missioni che vogliono preservare o consolidare paci fragili e sofferenti. Lo scorso anno nelle battute conclusive del discorso ricordavo che «noi tutti in prima persona possiamo e dobbiamo essere fabbricanti di pace». Ma solo avendo chiaro cosa accadde, possiamo fabbricarla e preservarla con efficacia, la pace. Risiedono qui, allora, l’importanza e l’attualità della commemorazione che celebra il trascorrere di un secolo dalla Prima Guerra Mondiale. Senza memoria, lucida e consapevole, non ci può essere lo Stato, non ci può essere l’Italia.
 
Grazie a chi si sacrificò in divisa per l’Italia allora e grazie a chi lo fa quotidianamente oggi. Viva le Forze Armate, viva l’Italia unita, patria di democrazia e pace».